martedì 10 dicembre 2013

Intervista con Patrizia Fabri


Era da un bel po’ che avevo messo l’occhio sulle vetrine di Antica Manifattura Cappelli. Continuavo a pensare che devo trovare del tempo per passarci per vedere bene tutti i bellissimi cappelli che ci sono dentro e magari fare qualche prova. Volevo scoprire chi li crea e qual'è la storia di questo posto. Storia che sicuramente potrebbe far parte della mia ricerca e raccolta sull’artigianato e tutto ciò che si può definire come l’eccellenza di Roma. 


Così, un giorno, sono finalmente entrata in questo negozio-atelier ed ho conosciuto la sua titolare, Patrizia Fabri, che è stata gentilissima ed ha risposto in modo dettagliato alle mie domande.


Mi racconti della Sua attività: quando e come è nata l'idea di diventare cappellaia?
È nato tutto assolutamente per caso, ma non a caso. La spinta iniziale è stata proprio la passione per il cappello. Intorno ai 17 anni ero venuta in questo laboratorio per comprarmi un cappello ed il proprietario, il signor Loris Cirri, mi ha aiutato a trovare un cappello, che poi, già a casa ho personalizzato rendendolo diverso, particolare.

Ho sempre pensato che la creatività è comunicazione, quindi bisogna proporla. Così la domenica successiva andando al mare sono entrata in un negozio di abbigliamento e ho detto: “Buongiorno, io faccio questi cappelli!”. Incredibile, ma la proprietaria mi ha ordinato 25 cappelli! Lunedì sono tornata qui ed ho detto al signor Loris: “Io ne vorrei 25!”. Lui è rimasto sconvolto, ha solo detto in toscano “La ragazza fa sul serio!”.

Quindi è iniziata così, con questo mio primo ordine di cappelli per il negozio al mare, un po’ per gioco, mentre studiavo architettura all’università. Venivo qui, sceglievo i modelli, li decoravo e personalizzavo. Piano piano si è creato un intero campionario che ha girato un po’ tutta l’Italia. E così è andato avanti per un po’. Poi ho approfondito e ai cappelli ho aggiunto le borse e le scarpe ed infine ho creato la mia attività. Qui venivo solo per acquistare i cappelli.

Poi nel 2003 il signor Loris si è ammalato, e così lui e sua sorella avevano deciso di chiudere, anche se non si è mai capito se avevano deciso di chiudere perché lui si è ammalato o si è ammalato perché avevano deciso di chiudere, perché gli artigiani sono così – vivono del proprio mestiere a cui sono molto legati. Non avendo eredi professionali lui aveva visto in me la sua idea di continuità di questo luogo, per cui mi pregava di prenderlo e portarlo avanti. Solo che la mia attività in quel momento era già decollata, andavamo a Parigi, a Milano, alle varie fiere con le collezioni di borse e scarpe, avevo già la mia struttura, dei dipendenti, il mio mercato. L’idea che tutto questo poteva essere buttato, sprecato o messo in mano a qualcuno non all'altezza mi dispiaceva molto, ma era chiaro che fare tutte e due le cose era impossibile. Inoltre il prezzo di questo atelier era altissimo per me. Così dissi di no, perché proprio non pensavo di potercela fare.

Loro si sono ritrovati a dover smembrare il laboratorio e vendere i singoli pezzi. Un giorno quando sono entrata qui ho trovato la sorella del signor Loris che vendeva delle forme di legno a un arredatore di Milano per decontestualizzarle. Queste forme sono delle vere sculture che corrispondono al negativo del cappello. Qui, in questo laboratorio, c’è la storia che va dal 1900 ad oggi, quindi potremmo ripercorrere un secolo di moda italiana attraverso il cappello che io definisco patrimonio artigianale e culturale italiano. Invece l’arredatore che le comprava voleva perforarle per trasformarle in lampade da salotto. Ero sconvolta da questa idea, letteralmente scioccata. Mi sembrava che smembrare questo patrimonio, che rappresentava un pezzo di storia, era un oltraggio. Per cui ho deciso di getto e detto: “L’attività non me la posso comprare, ma compro tutto il materiale, le forme” ed ho lasciato un acconto.


È stato un impulso emotivo, di pancia, salvare in qualche modo gli strumenti e di metterli via. Invece a quel punto mi si è aperto un nuovo scenario, inaspettato, perché le persone che lavoravono qui, da anni, e che con la chiusura del laboratorio rischiavano di perdere il lavoro mi hanno proposto di continuare insieme questa attività. E così ho preso la decisione di continuare l’attività di questo atelier. Per quanto riguarda il signor Loris purtroppo è venuto a mancare quello stesso anno.

Abbiamo riaperto questo negozio il 1 ottobre 2003, quest’anno abbiamo festeggiato 10 anni di attività. È stata una grande sfida, di grande coraggio, era proprio andare contro corrente, perché nessuno avrebbe scommesso su un’operazione del genere. Con il tempo questa attività è diventata unica nel suo genere e controtendenza, perché tanti altri settori, incluso quello delle borse e delle scarpe, si sono scontrati con la concorrenza cinese e sono andati in crisi. Sono molto orgogliosa di questo successo. Spesso mi dicono: “E’ il negozio più bello di Roma!”. Secondo me invece forse è il negozio non più bello, ma il più particolare, unico nel suo genere, ha il fascino del passato che si respira ancora qui. Infatti quando vendo un cappello dico sempre che non vendo il cappello, ma un pezzo di storia, di emozioni, di passione, c’è tutto questo dentro un cappello che compri qui.


E che cosa è successo con l’altra Sua attività?
Per 4-5 anni ho continuato a gestire anche l’attività di borse e scarpe contemporaneamente. Quindi la mattina mi trovavo a gestire il laboratorio con gli altri dipendenti e altro tipo di lavoro, il pomeriggio tornavo qui, facevo un salto nel passato, solo che non ero più un cliente, ma ero la proprietaria. Non sapevo quasi nulla, quindi dovevo imparare.

Ad un certo punto ho dovuto fare una scelta. Forse perché questa attività ha preso piede, anche il punto vendita si è rinnovato totalmente, la gente ha iniziato a scoprirlo, forse perché mettevo tutte le mie energie su questa attività perché era nuova e aveva bisogno di essere spinta, forse perché a gestire due aziende così diverse tra loro non ce la facevo fisicamente, il fatto sta che ho deciso ed ho scelto di concentrarmi solo su questa attività. Una scelta radicale, profonda, dolorosissima. Lì avevo la libertà di creare, tagliare, fare, qui mi sono messa a disposizione, al servizio di gente con cui lavoriamo e collaboriamo. Normalmente all’inizio si lavora per gli altri e poi ci si mette in proprio, io ho fatto il contrario. Ma va bene così, ho appreso tanto da questa nuova esperienza. 

In che cosa consiste oggi l’attività di Antica Manifattura Cappelli?
Facciamo dei pezzi unici per clienti che vengono con i propri abiti per le cerimonie o le occasioni tipo Ascot. Inoltre faccio una selezione di alcuni marchi aggiungendo i nostri pezzi particolari per una vendita normale, soprattutto d’inverno quando c’è bisogno del cappello.

Poi lavoriamo per cinema e teatro. Mi sono messa a disposizione dei costumisti. È una cosa interessantissima ed è anche un’apertura verso una parte commerciale, perché tutta questa eredità bisogna tenerla in vita e mantenere. Lavoriamo anche con la moda, per piccole produzioni e per l’alta moda per le sfilate. Abbiamo creato cappelli per Capucci, Ettore Bilotta, creiamo per Gattinoni, Balestra, Sergio Zambon.

Con il mio arrivo abbiamo introdotto anche cappelli da uomo, perché praticamente in contemporanea è stato chiuso un negozio di cappelli da uomo qui vicino e quindi c’è stata la richiesta di questo tipo di prodotto. A proposito, adesso sta partendo un nuovo progetto per creare un marchio con soli cappelli da uomo.


Oltre a tutto questo insegno alla KOEFIA (Accademia Internazionale d’Alta Moda e d’Arte del Costume), dove tengo un corso di cappello. E per non buttare la mia esperienza da stilista, tre anni fa mi sono rimessa in gioco, ho creato una collezione di soli cappelli da donne e quindi ho ricominciato a presentare le collezioni a Milano e Parigi.  

Come si crea un cappello? Quanto tempo ci vuole?
Per fare un cappello ci vuole tanto tempo. Fondamentalmente il cappello si realizza con le forme di legno, quindi la prima cosa da fare, sia se lo disegnano gli altri, sia se lo disegno io, è realizzare una forma di legno. Le forme di legno sono la quintessenza del cappello, la sua anima. Queste forme sono oggetti stupendi, la stessa forma si può interpretare in infinite varianti, dipende dal tipo di tessuto piuttosto che dalla lavorazione.

La forma di legno è un oggetto affascinante, ma complicato perché non sempre da una bella forma può uscire un bel cappello e viceversa. Tutto dipende da proporzioni, armonia e vestibilità. La riuscita della forma di legno dipende dal formaio, ormai anche questo tipo di professione è in via di estinzione, in Italia ne è rimasto uno solo, in Toscana che è la madre-patria del cappello.


Con la forma di legno bisogna riuscire ad interpretare quell’eleganza ed armonia che, come dico io, migliori la persona, la completi, almeno questo è il mio intento. Ormai regna la voglia di stravolgere, di colpire, di generalizzare. Non esiste più “mi sta bene” o “mi sta male”, esiste solo “è trendy” o “non è trendy”. Invece quello che cerco di fare io è donare, il cappello deve essere un abbellimento, ecco. 

Ha dei momenti di pura creatività, quando non lavora su ordinazione, ma crea solamente?
Il fatto che ho preso questa attività così, in modo inaspettato, significa che devo ancora acquisire tutto quello che è la storia, quindi gioco molto di rimessa su quelle che sono le vecchie forme. Sono talmente belle, talmente vintage che solo rivisitare quelle, interpretarle in chiave moderna, secondo il mio stile e mio gusto già significa avere un atto creativo che non è fine a se stesso, che non è solo mio, ma ripesca nel passato, nella storia. È talmente ricca l’eredità di quello che è già stato fatto che inventare qualcosa completamente nuovo è difficile. Questo posto ha tante realtà, posso fare un pezzo unico per andare ad Ascot, piuttosto un pezzo per la mia collezione che è più fashion, più vendibile. 


Certo si possono creare delle cose pazzesche per cerimonie o sfilate, ma per tutti i giorni secondo me bisogna partire dalla persona e renderla particolare, amplificare la sua personalità attraverso il cappello che è molto importante perché si porta in testa, sul volto. Ad esempio, Philip Treacy, il famoso designer britannico di cappelli, a mio avviso è un bravissimo scultore, ma le sue opere in testa ad una persona mettono in ombra la persona stessa che è contro la mia ideologia perché io parto sempre dalla persona. L’armonia di una semplice curva a mio avviso vale molto di più di qualsiasi artifizio. 

Preparandomi per questa intervista mi sono resa conto che ho da sempre avuto un rapporto difficile con i cappelli, probabilmente è legato al mio passato. Che cosa mi può dire a riguardo? Il rapporto con il cappello ha davvero a che fare con la psicologia?
Il cappello tra gli accessori è sicuramente il più fantastico, più fascinoso e poi ha molte chiavi di lettura simboliche. Non potrà mai essere volgare come ad esempio invece può essere una scarpa. Allo stesso tempo il cappello ha una sensualità incredibile. Una modista di 90 anni, famosissima, che ho avuto il piacere di conoscere, mi diceva che a suo tempo, quando tutte le donne portavano i cappelli c’era una scuola solo sul come si dovevano muovere le dita per sollevare la veletta. Questo era un discorso di sensualità che ormai non esiste più, purtroppo. Come anche la sensualità del collo che il cappello può sottolineare, non a caso nel cappello i capelli vanno sempre legati perché così c’è un’enfatizzazione del viso incredibile.


Se vogliamo interpretare il cappello in chiave psicologica questo ha un forte legame con il rapporto con la propria figura, con se stesso e con gli altri perché il cappello è comunicazione. Prima, quando si usava il cappello, esisteva un galateo vero e proprio del cappello: usarlo o non usarlo in certi modi, toglierselo per salutare, etc.

Poi il cappello è andato in disuso perché ha subito vari colpi e contro colpi. Il primo colpo è stato l’uso della macchina, il secondo è stata la così detta rivoluzione sociale, il femminismo, il terzo è stato il motorino e l’utilizzo del casco.  


Le racconto un episodio, è accaduto quando era ancora vivo il Sig. Loris. Una volta qui è entrata una ragazza, ha provato dei cappelli, ma non sapeva come metterli ed infine ha detto: “Mi vergogno ad uscire così”. La cosa buffa era che aveva i jeans a vita bassissima che non nascondevano diciamo nulla. Il Sig. Loris era disperato: “Ma io non capisco, ti vergogni a mettere il cappello in testa e non ti vergogni ad uscire di casa con mezzo sedere fuori!”. Un episodio molto interessante proprio dal punto di vista antropologico!

Come vede, è molto complicato vendere un cappello, perché va influenzato molto dalla moda, dall’estetica, ma anche dalla psicologia. Oltre alle varie operazioni che facciamo quando vendiamo un cappello, come salvare il mestiere e far tornare la passione per il cappello, rimettiamo anche in linea le persone con il proprio io. Una visita qui è quasi una seduta terapeutica!

Una regola d'oro quando si compra un cappello?
Per ogni fisico c’è il suo modello, e poi ci sono gli artifizi da alta moda che purtroppo con l’arrivo di pret-a-porter abbiamo perso.

Comunque sì, c’è una regola fondamentale: scegliere il cappello con il quale ci si sente come se non si portasse il cappello. Quello con cui ci si sente meglio, con cui ci si identifica – quello è il cappello giusto. Molto semplice! Infatti ai miei studenti a scuola io dico sempre che li stupirò con le cose semplici che abbiamo perso per la strada.


A questo punto parliamo della Sua esperienza da insegnante. Come è nata questa idea?
L’idea di farmi insegnare è stata del preside della scuola KOEFIA che da bravo imprenditore ha intuito il ritorno del cappello e ha capito che un corso di cappello avrebbe arricchito e completato lo studio dell’intero mondo dell’abbigliamento e degli accessori.

Mi piace insegnare, mi diverto. All’inizio dico ai miei studenti che vivranno un’avventura. Alla prima lezione porto tantissimi cappelli, anche i cappelli eleganti, con la veletta, li faccio indossare e propongo a studenti di fotografarsi tra loro. Così vedono come si cambia la postura, l’espressione, l’atteggiamento, ed è già una scoperta per loro. Poi quando scoprono che il feltro per il cappello è fatto di pelo di coniglio che ad un certo punto della sua realizzazione finisce nel forno per loro questo è una vera sorpresa. Perciò il corso di cappello è davvero un’avventura.  


Certo oggi i giovani vivono velocemente le cose, vogliono tutto e subito, e quindi anche quando riescono ad avere un’emozione, sembra che è un fuoco d’artificio che non lascia quasi il segno. Li vedi impazziti, emozionati, e quindi speri che magari tornati a casa dopo la lezione faranno delle ricerche, ti racconteranno qualcosa, invece alla lezione dopo li vedi già spenti e devi ricominciare da capo per coinvolgerli. Come se le emozioni non si sedimentassero. Questo mi sconvolge. Ma certo è un discorso generale. Per fortuna ci sono sempre 4-5 del corso molto affezionati, e poi alla fine 1-2 che vengono qui a fare la loro esperienza.    

Quali sono le caratteristiche per diventare un bravo cappellaio e un bravo artigiano?
Io dico sempre che ognuno è l’imprenditore di se stesso. Quindi per fare l’imprenditore serve una presunzione, un filo di pazzia e contemporaneamente molta concretezza. Per fare questo mestiere ci vuole la passione e la voglia di fare, come per tutti i mestieri. Sono le parole chiave.



Quale è il futuro dell’artigianato in Italia, secondo Lei?
Oggi tutti vogliono diventare stilisti, tutti si vogliono esprimere, ma nessuno vuole veramente studiare, aprire una bottega e fare l’artigiano o investire in una forma di artigianato. No, la maggior parte vuole avere il lavoro fisso e prendere uno stipendio come dipendente.

Forse torneremo al culto dell’artigianato tra 10-20 anni, non lo so. In Giappone sta già accadendo, forse accadrà anche da noi. Ma nel frattempo abbiamo già perso dei mestieri. Ci insegneranno a noi i giapponesi. Già 15 anni fa incontravo delle giapponesi nei negozi di calzature fatte a mano a Firenze che pagavano per imparare. Qui da me invece vengono gli italiani e già dopo un mese mi dicono che sono bravi, quindi già vogliono creare e guadagnare. Nessuno non è più disposto a fare la gavetta. Pensano che basti prendere un cappello sul quale applicare qualche decorazione per essere chiamati cappellai. La gente deve capire che ci vogliono anni per imparare il mestiere, non è solo un discorso di creatività. 




L'Italia comunque è ancora il leader mondiale per la produzione di cappelli. Alessandria dove è nata e c’è ancora la sede di Borsalino, è riconosciuta come la capitale mondiale del cappello. Altri paesi, come l’Inghilterra, ad esempio, hanno una grande tradizione nel portare i cappelli, ma la capacità di realizzazione, le materie prime come i feltri piemontesi e le paglie toscane si trovano qui, in Italia e sono i migliori nel mondo.

Il Suo legame con Roma? Potrebbe vivere lontano da questa città?
Sono nata a Roma, la amo, certo, ma la trovo molto faticosa per vivere, tanto che ho fatto la scelta di vivere in campagna, anche se poi alla fine passo quasi tutto il tempo a Roma e in campagna vado solo a dormire.

Il quartiere Prati e questa via sono la mia zona, sono cresciuta qui, qui andavo dalle suore in asilo, il nostro portone era qui dietro, conosco molte persone qui.

Ma da quando ho questo negozio e grazie anche alla scelta della campagna non vivo più Roma, mentre invece vivo il resto del mondo. Per certi versi per me è molto più complicato andare all'EUR che a New York. Quando lavori praticamente 7 giorni su 7, dalle 9 alle 19, non trovi più né tempo né le forze per andare in via del Corso o in piazza di Spagna.  

Secondo Lei esiste un Roman lifestyle, lo stile di vita alla romana? Se sì, come lo descriverebbe, in che cosa consiste?
I tempi lunghi, dilatati dei romani, con tanto di pausa caffè, pausa pranzo, pausa dottore, pausa spesa, sicuramente influenzati anche da tantissimi uffici e ministeri situati a Roma, dal fatto che molti fanno un lavoro dipendente, quindi non devono preoccuparsi più di tanto della propria attività. Io invece sono contraria al concetto del posto fisso, che è il sogno di tanti, perché atrofizza il cervello, la passione, l’entusiasmo, il senso d’iniziativa.

Qualche Suo indirizzo o posto preferito a Roma?
Sicuramente Castel Sant’Angelo che mi piace moltissimo. Anche il Gianicolo, molto legato alla mia infanzia, soprattutto per la presenza di Pulcinella, delle marionette. L’unico burattinaio che ancora esiste a Roma è lì, da piccola andavo lì nel parco per vedere il teatrino. Per me è un pezzo di storia.

Antica Manifattura Cappelli di Patrizia Fabri
Via degli Scipioni, 46
Tel 06 39725679



Fotografie - Antonio De Paolis